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“… A poco a poco però cominciai ad abituarmi anche a questo. Mi abituavo a tutto, cioè non è che mi abituassi, ma in qualche modo accettavo volontariamente di sopportare ogni cosa. Però avevo un sistema che placava tutto: quello di trovare la salvezza nel “bello e sublime”, naturalmente nei sogni. Sognavo disperatamente, sognavo per tre mesi consecutivi, raggomitolato nella mia tana…
… Ma quanto amore, santo cielo, quanto amore invadeva la mia vita, durante questi miei sogni… ”
Mi sembra di intravedere qui tre concetti fondamentali che sono venuti fuori anche durante il percorso con gli incontri di gruppo: la presa di distanza dalla fonte del dolore, l’isolamento e il disperato bisogno del “bello” e del “buono” e dell’amore inteso nel senso più ampio possibile, Torno sempre allo stesso punto: la mancata accettazione di come è la vita, di quello che ci circonda e di quello che ci accade porta alla dissociazione…
Quell’esclamazione così forte: “ma quanto amore, santo cielo, quanto amore invadeva la mia vita” da’ l’idea della potenza del senso di gratificazione della fantasia e mi ha colpito molto.
Lui era con buona probabilità un MDDer; non ne parla mai in senso negativo o in termini di tempo perso, ma spesso ne parla al passato, come se si trattasse di un capitolo chiuso; aveva però sviluppato una compulsione al gioco d’azzardo e quindi forse ha sostituito un disagio con un altro…